Tsunami causato dall'Etna.
Come accertato dalle ricerche effettuate dall'INGV di Pisa, intorno al 6000 a. C. il fianco orientale dell'Etna crollò in mare e provocò uno tsunami così potente da devastare non solo la Sicilia e l'Italia Meridionale ma tutto il Mediterraneo Orientale. Secondo quanto ritengono gli studiosi, esso fu anche responsabile dell'abbandono dei primi insediamenti urbani sulle coste mediorientali, tra cui la città di Atlit-Yam, nel nord di Israele, le cui rovine sommerse giacciono ad alcune centinaia di metri dalla costa. Ma secondo quanto stanno appurando geofisici e vulcanologi, la catastrofe etnea di 8000 anni fa potrebbe ripetersi di nuovo (speriamo in un futuro lontano), come indicato dal lento "slittamento" verso il Mar Jonio della parete est del vulcano, sotto la spinta della Faglia Pernicana.
Intero settore dell'Etna si adagia verso il mare.
Il fianco orientale dell’Etna sta scivolando verso il Mar Jonio, spinto dal peso delle sue masse rocciose e dalla pressione del magma al suo interno: questo in poche parole quanto hanno accertato in questi ultimi anni i vulcanologi tramite sofisticate strumentazioni e nuovi metodi di indagine. Le conseguenze immediate di un tale imponente slittamento sono i frequenti terremoti che coinvolgono le persone e gli edifici che risiedono lungo i pendii del vulcano. Ma un domani l’intero fianco dell’Etna potrebbe crollare come già accaduto 8000 anni fa, allorchè, probabilmente in conseguenza di una forte eruzione, 35 Km cubi di materiale vulcanico finirono in mare scatenando uno tsunami così potente da devastare le coste dell’intero Mediterraneo Orientale. I vulcanologi tuttavia hanno scoperto ancora altre novità altrettanto inquietanti, ad esempio sulla natura delle attuali eruzioni, e sulla stretta correlazione tra queste ed i terremoti più vasti che coinvolgono episodicamente vaste aree geografiche della Sicilia Orientale.
Marzo 1981 - L'eruzione che sfiorò la città di Randazzo.
Giorno 17 marzo 1981. Nelle cinque settimane che hanno preceduto l'inizio dell'eruzione, circa 4000 eventi sismici di tipo B e di bassa magnitudo furono registrati dalla rete sismica dell'Etna nell'area sommitale e nel fianco nord del vulcano. Una intensa crisi sismica ha inizio giorno 16, con più di 50 eventi l'ora, caratterizzata in prevalenza da terremoti superficiali, con i più deboli e più superficiali localizzati in prossimità del teatro eruttivo. Già nelle prime ore del mattino del 17, ciò fà temere un'eruzione di fianco in questo settore del vulcano, meno di 2 anni dopo l'ultima eruzione laterale che ha interessato il fianco orientale etneo, causando danni nei dintorni di Fornazzo. Da una profondità di diversi chilometri una massa di magma spingeva verso la superficie, tagliando il fianco della montagna come un cuneo, rompendo le rocce e così generando centinaia di scosse sismiche. Poco dopo l'ora di pranzo del 17 marzo, ad una quota di 2625-2500 m, si iniziano ad aprire fratture nel versante nord dell'Etna, e così ha inizio una delle più drammatiche e distruttive eruzioni dell'Etna del XX secolo. Un evento che sarà di brevissima durata e che si svilupperà con una dinamica insolitamente violenta e rapida. In soli due giorni, le colate laviche inondano e devastano boschi, terreni coltivati, vigneti, casolari, villette e tagliano strade, ferrovie, travolgendo le linee telefoniche ed elettriche. Per poco le colate non raggiungono la cittadina di Randazzo e il vicino borgo di Montelaguardia. Si sfiorò quanto accaduto nel 1928, quando il paese di Mascali fu quasi completamente distrutto da una colata lavica. Eruzioni di questo tipo rappresentano uno degli scenari più estremi per la regione etnea, anche a breve termine, soprattutto nel caso in cui dovessero colpire i settori più densamente popolati sui fianchi sud e sud-est.
L'inizio dell'eruzione viene seguito direttamente dai vulcanologi sorvolando il vulcano in elicottero in attesa dell'evento (su cui si era dato anche un avviso pubblico attraverso i news media). Alle ore 13:37 del 17 marzo 1981, un sistema di fessure eruttive comincia ad aprirsi a quota 2625-2500m sul versante settentrionale dell'Etna. Accompagnate da fontane di lava ed occasionali esplosioni freatomagmatiche causate dall'interazione fra il magma incandescente e la spessa coltre di neve presente sul vulcano, vengono emesse diverse colate laviche di piccola entità. Nel frattempo il sistema di fratture eruttive continua a propagarsi verso NNW, in direzione della città di Randazzo. Nella serata del 17 marzo si apre una frattura a quota 1800, dalla quale una voluminosa colata lavica comincia ad avanzare molto rapidamente verso nord, minacciando l'abitato di Montelaguardia, a pochi chilometri a est di Randazzo.
Nelle prime ore del 18 marzo, il sistema di fratture eruttive si propaga ulteriormente verso il basso versante e nella tarda mattinata raggiunge quota 1400. Mentre la colata lavica principale (alimentata dalla frattura a 1800 m) prende un percorso che passa a metà fra Randazzo e Montelaguardia, delle nuove colate emesse dalle bocche più basse cominciano a scendere direttamente verso Randazzo. In poche ore, la colata principale distrugge dozzine di case di campagna e terreni coltivati, e taglia tutte le vie di comunicazione (i binari delle Ferrovie di Stato e della Circumetnea, la S.S. 120 e diverse altre strade). Rallentando, la colata raggiunge l'alveo del fiume Alcantara dove si ferma senza aver toccato il fiume stesso, ad una distanza di 7.5 km dalle bocche eruttive.
Continua intanto la propagazione del sistema di fratture eruttive, che ha fine nel pomeriggio del 18 marzo con l'apertura di alcune piccole bocche a quota 1250-1115 m, dalle quali escono solo minori volumi di lava. L'eruzione comincia a perdere forza, e la colata che sta minacciando Randazzo rallenta. Per alcuni giorni (fino al 23 marzo) continua una debole attività stromboliana alle bocche di quota 1250-1115, che alimenta scarsamente la colata in direzione di Randazzo e che finalmente si arresta a 2 km dal margine dell'abitato giorno 23.
Il volume totale di lava emessa in questa eruzione viene stimato in 20-30 milioni di m3 (studi recenti supportano la stima più bassa). Nonostante questo volume relativamente modesto, i tassi effusivi durante i primi due giorni dell'eruzione hanno raggiunto picchi eccezionali di circa 300-600 m3 al secondo.
L'inizio dell'eruzione viene seguito direttamente dai vulcanologi sorvolando il vulcano in elicottero in attesa dell'evento (su cui si era dato anche un avviso pubblico attraverso i news media). Alle ore 13:37 del 17 marzo 1981, un sistema di fessure eruttive comincia ad aprirsi a quota 2625-2500m sul versante settentrionale dell'Etna. Accompagnate da fontane di lava ed occasionali esplosioni freatomagmatiche causate dall'interazione fra il magma incandescente e la spessa coltre di neve presente sul vulcano, vengono emesse diverse colate laviche di piccola entità. Nel frattempo il sistema di fratture eruttive continua a propagarsi verso NNW, in direzione della città di Randazzo. Nella serata del 17 marzo si apre una frattura a quota 1800, dalla quale una voluminosa colata lavica comincia ad avanzare molto rapidamente verso nord, minacciando l'abitato di Montelaguardia, a pochi chilometri a est di Randazzo.
Nelle prime ore del 18 marzo, il sistema di fratture eruttive si propaga ulteriormente verso il basso versante e nella tarda mattinata raggiunge quota 1400. Mentre la colata lavica principale (alimentata dalla frattura a 1800 m) prende un percorso che passa a metà fra Randazzo e Montelaguardia, delle nuove colate emesse dalle bocche più basse cominciano a scendere direttamente verso Randazzo. In poche ore, la colata principale distrugge dozzine di case di campagna e terreni coltivati, e taglia tutte le vie di comunicazione (i binari delle Ferrovie di Stato e della Circumetnea, la S.S. 120 e diverse altre strade). Rallentando, la colata raggiunge l'alveo del fiume Alcantara dove si ferma senza aver toccato il fiume stesso, ad una distanza di 7.5 km dalle bocche eruttive.
Continua intanto la propagazione del sistema di fratture eruttive, che ha fine nel pomeriggio del 18 marzo con l'apertura di alcune piccole bocche a quota 1250-1115 m, dalle quali escono solo minori volumi di lava. L'eruzione comincia a perdere forza, e la colata che sta minacciando Randazzo rallenta. Per alcuni giorni (fino al 23 marzo) continua una debole attività stromboliana alle bocche di quota 1250-1115, che alimenta scarsamente la colata in direzione di Randazzo e che finalmente si arresta a 2 km dal margine dell'abitato giorno 23.
Il volume totale di lava emessa in questa eruzione viene stimato in 20-30 milioni di m3 (studi recenti supportano la stima più bassa). Nonostante questo volume relativamente modesto, i tassi effusivi durante i primi due giorni dell'eruzione hanno raggiunto picchi eccezionali di circa 300-600 m3 al secondo.
Il terremoto dell'11 Gennaio del 1693.
La Catania del Seicento subì parecchie dolorose sventure; tra esse, particolarmente gravi furono l'eruzione lavica del 1669 e il catastrofico terremoto dell'11 gennaio 1693, che distrusse quasi del tutto la città.
A questo spaventoso cataclisma sono legate due leggende catanesi, quella di "Don Arcaloro" e quella del "Vescovo Carafa".
La prima di queste due leggende narra che nella mattinata del 10 gennaio 1693 si presentò al palazzo del barone catanese Don Arcaloro Scammacca una nota e temibile fattucchiera locale, che, con la sua voce stridula, ordinò a don Arcaloro di affacciarsi subito, perchè avrebbe dovuto comunicargli una cosa di somma urgenza e di grandissima importanza: ne sarebbe andata di mezzo la vita!
I servi non volevano lasciarla passare, ma Don Arcaloro, conoscendo il tipo, ordinò che la facessero salire.
La vecchia strega allora confidò al barone che quella notte aveva sognato Sant' Agata, la quale supplicava il Signore di salvare la sua città dal terremoto.
Ma il Signore aveva rifiutato di concedere la grazia, a causa dei gravi peccati commessi dai catanesi; ed aggiunse la tremenda profezia "Don Arcaloru, don Arcaloru, dumani. A vintin' ura, a Catania s'abballa senza sonu".
L'accorto barone capì subito quale "ballo senza musica" avrebbe ballato Catania il giorno dopo; e dopo aver ricompensato lautamente la vecchia fattucchiera, si rifugio in aperta campagna, dove attese l'ora fatale: e, all'ora indicata dalla strega, il terremoto si verificò con le sue catastrofiche conseguenze.
La seconda leggenda, relativa al terremoto del 1693, è quella che riguarda il Vescovo Francesco Carafa, che resse la diocesi di Catania dal 1687 al 1692.
La leggenda narra che questo buon vescovo, mediante le sue fervorose preghiere, era riuscito per ben due volte a tenere lontano dalla sua amata città il flagello del terremoto.
Ma nel 1692 egli morì, e l'anno appresso, venute meno le sue preghiere, Catania venne distrutta dal terremoto.
A questo spaventoso cataclisma sono legate due leggende catanesi, quella di "Don Arcaloro" e quella del "Vescovo Carafa".
La prima di queste due leggende narra che nella mattinata del 10 gennaio 1693 si presentò al palazzo del barone catanese Don Arcaloro Scammacca una nota e temibile fattucchiera locale, che, con la sua voce stridula, ordinò a don Arcaloro di affacciarsi subito, perchè avrebbe dovuto comunicargli una cosa di somma urgenza e di grandissima importanza: ne sarebbe andata di mezzo la vita!
I servi non volevano lasciarla passare, ma Don Arcaloro, conoscendo il tipo, ordinò che la facessero salire.
La vecchia strega allora confidò al barone che quella notte aveva sognato Sant' Agata, la quale supplicava il Signore di salvare la sua città dal terremoto.
Ma il Signore aveva rifiutato di concedere la grazia, a causa dei gravi peccati commessi dai catanesi; ed aggiunse la tremenda profezia "Don Arcaloru, don Arcaloru, dumani. A vintin' ura, a Catania s'abballa senza sonu".
L'accorto barone capì subito quale "ballo senza musica" avrebbe ballato Catania il giorno dopo; e dopo aver ricompensato lautamente la vecchia fattucchiera, si rifugio in aperta campagna, dove attese l'ora fatale: e, all'ora indicata dalla strega, il terremoto si verificò con le sue catastrofiche conseguenze.
La seconda leggenda, relativa al terremoto del 1693, è quella che riguarda il Vescovo Francesco Carafa, che resse la diocesi di Catania dal 1687 al 1692.
La leggenda narra che questo buon vescovo, mediante le sue fervorose preghiere, era riuscito per ben due volte a tenere lontano dalla sua amata città il flagello del terremoto.
Ma nel 1692 egli morì, e l'anno appresso, venute meno le sue preghiere, Catania venne distrutta dal terremoto.
L'elefante - "U LIOTRU".
Ad una leggenda antichissima è riportata l'origine dell' elefante di pietra lavica di Catania, che dal 1239 è il simbolo ufficiale della città etnea.
Questa leggenda si collega al fatto storico reale che attesta che in Sicilia, nel paleolitico superiore, viveva l'elefante nano; la leggenda racconta che, quando Catania fu per la prima volta abitata, tutti gli animali feroci e nocivi furono messi in fuga da un benigno elefante, al quale i catanesi, in segno di gratitudine, eressero una statua, da essi chiamata col nome di Liotru che è una corruzione dialettale di Eliodoro. Questi era un dotto catanese dell'VIII secolo che fu fatto bruciare vivo nel 778 dal vescovo di Catania San Leone II il Taumaturgo, perchè, non essendo riuscito a diventare vescovo della citta', disturbava le funzioni sacre con varie magie, tra cui quella di far camminare l'elefante di pietra.
Numerose ipotesi sono state fatte dagli studiosi per spiegare l'origine ed il significato della singolare statua di pietra.
Quella più attendibile è l'ipotesi espressa nel secolo XII dal geografo arabo Idrisi, che nel 1145-1154 descrisse la Sicilia per ordine del re normanno Ruggero II. Secondo Idrisi l'elefante di Catania è una statua magica, cioè un vero e proprio talismano, costruito in età bizantina in pietra lavica, proprio per tenere lontano dalla città le offese dell'Etna.
Questa leggenda si collega al fatto storico reale che attesta che in Sicilia, nel paleolitico superiore, viveva l'elefante nano; la leggenda racconta che, quando Catania fu per la prima volta abitata, tutti gli animali feroci e nocivi furono messi in fuga da un benigno elefante, al quale i catanesi, in segno di gratitudine, eressero una statua, da essi chiamata col nome di Liotru che è una corruzione dialettale di Eliodoro. Questi era un dotto catanese dell'VIII secolo che fu fatto bruciare vivo nel 778 dal vescovo di Catania San Leone II il Taumaturgo, perchè, non essendo riuscito a diventare vescovo della citta', disturbava le funzioni sacre con varie magie, tra cui quella di far camminare l'elefante di pietra.
Numerose ipotesi sono state fatte dagli studiosi per spiegare l'origine ed il significato della singolare statua di pietra.
Quella più attendibile è l'ipotesi espressa nel secolo XII dal geografo arabo Idrisi, che nel 1145-1154 descrisse la Sicilia per ordine del re normanno Ruggero II. Secondo Idrisi l'elefante di Catania è una statua magica, cioè un vero e proprio talismano, costruito in età bizantina in pietra lavica, proprio per tenere lontano dalla città le offese dell'Etna.
La leggenda del "Castagno dei 100 cavalli".
Nel Comune di Sant'Alfio, in provincia di Catania, cresce un castagno la cui età i botanici datano dai 2000 ai 4000 anni. E' considerato l'albero più antico d'Europa ed il più grande d'Italia. La sua longevità è ancora un mistero.
La sua mole è talmente imponente che è stato oggetto di studio da grandi naturalisti e molti famosi pittori l'hanno ritratto. Nel 1965 il castagno fu espropriato e dichiarato monumento nazionale. Alla fine del XX secolo alcuni enti locali hanno avviato una serie di studi per tutelare e conservare il castagno e si è fatta la richiesta perché diventi patrimonio Unesco.
Naturalmente non poteva mancare una leggenda legata a questo castagno!
Si narra che la Regina Giovanna I d'Aragona, recandosi dalla Spagna a Napoli, si fermasse in Sicilia e andasse a visitare l'Etna a cavallo.Essendo sopravvenuto un temporale, essa si rifugiò sotto quest'albero, il cui vasto fogliame bastò per riparare dalla pioggia la regina e tutti i suoi cavalieri. Da qui la denominazione "ALBERO DEI CENTO CAVALLI".
Questa è la versione preferita della leggenda! Secondo altri, che collegano la leggenda all'insurrezione dei "Vespri", si tratterebbe, invece, della Regina Giovanna I d'Angiò. La sovrana, poiché il temporale si era protratto sino a sera, passò sotto le fronde del castagno, durante la notte, in compagnia di uno o più amanti fra i cavalieri al suo seguito.
Ma tutto, molto probabilmente, è frutto della semplice fantasia popolare, perché la regina Giovanna d'Angiò, pur essendo nota per una certa dissolutezza nelle relazioni amorose, è quasi certo che non fu mai in Sicilia.
La sua mole è talmente imponente che è stato oggetto di studio da grandi naturalisti e molti famosi pittori l'hanno ritratto. Nel 1965 il castagno fu espropriato e dichiarato monumento nazionale. Alla fine del XX secolo alcuni enti locali hanno avviato una serie di studi per tutelare e conservare il castagno e si è fatta la richiesta perché diventi patrimonio Unesco.
Naturalmente non poteva mancare una leggenda legata a questo castagno!
Si narra che la Regina Giovanna I d'Aragona, recandosi dalla Spagna a Napoli, si fermasse in Sicilia e andasse a visitare l'Etna a cavallo.Essendo sopravvenuto un temporale, essa si rifugiò sotto quest'albero, il cui vasto fogliame bastò per riparare dalla pioggia la regina e tutti i suoi cavalieri. Da qui la denominazione "ALBERO DEI CENTO CAVALLI".
Questa è la versione preferita della leggenda! Secondo altri, che collegano la leggenda all'insurrezione dei "Vespri", si tratterebbe, invece, della Regina Giovanna I d'Angiò. La sovrana, poiché il temporale si era protratto sino a sera, passò sotto le fronde del castagno, durante la notte, in compagnia di uno o più amanti fra i cavalieri al suo seguito.
Ma tutto, molto probabilmente, è frutto della semplice fantasia popolare, perché la regina Giovanna d'Angiò, pur essendo nota per una certa dissolutezza nelle relazioni amorose, è quasi certo che non fu mai in Sicilia.
Descrizione di "bomba lavica".
I frammenti più grandi, pesanti blocchi rocciosi, cadono nelle immediate vicinanze dell'orlo del cono.
Le cosiddette "bombe", sono frammenti dai 10 ai 50 centimetri, per il loro minor peso vengono proiettate ad una distanza maggiore e spesso, durante il volo, il materiale fuso che le costituisce assume una forma allungata dovuta alla resistenza dell’aria che ne modella la forma..
I "lapilli" sono frammenti ancora più piccoli (pochi centimetri), che vengono proiettati ancora più lontano dalla bocca esplosiva, anche se non riescono a raggiungere le distanze coperte dalle "ceneri vulcaniche", talmente leggere che, trasportate dal vento, raggiungono spesso i centri abitati pedemontani e la città di Catania. Nessun rischio di pioggie infuocate però minaccia la città, perché la distanza è tale che le ceneri hanno tutto il tempo di raffreddarsi durante il voloe di giungere a terra completamente inerti.
C'è inoltre da aggiungere che i prodotti piroclastici (così sono definiti frammenti vulcanici proiettati in volo durante le esplosioni vulcaniche), non sempre sono costituiti originariamente da brandelli di lava che si solidificano durante il volo: molto spesso, infatti, soprattutto nelle prime fasi dell'attività esplosiva, vengono espulsi frammenti già freddi provenienti dalle pareti interne del cratere le quali, franando all'interno del condotto vulcanico lo ostruiscono temporaneamente e, di conseguenza, sono i primi ad essere espulsi non appena ha avvio l'attività esplosiva.
Le cosiddette "bombe", sono frammenti dai 10 ai 50 centimetri, per il loro minor peso vengono proiettate ad una distanza maggiore e spesso, durante il volo, il materiale fuso che le costituisce assume una forma allungata dovuta alla resistenza dell’aria che ne modella la forma..
I "lapilli" sono frammenti ancora più piccoli (pochi centimetri), che vengono proiettati ancora più lontano dalla bocca esplosiva, anche se non riescono a raggiungere le distanze coperte dalle "ceneri vulcaniche", talmente leggere che, trasportate dal vento, raggiungono spesso i centri abitati pedemontani e la città di Catania. Nessun rischio di pioggie infuocate però minaccia la città, perché la distanza è tale che le ceneri hanno tutto il tempo di raffreddarsi durante il voloe di giungere a terra completamente inerti.
C'è inoltre da aggiungere che i prodotti piroclastici (così sono definiti frammenti vulcanici proiettati in volo durante le esplosioni vulcaniche), non sempre sono costituiti originariamente da brandelli di lava che si solidificano durante il volo: molto spesso, infatti, soprattutto nelle prime fasi dell'attività esplosiva, vengono espulsi frammenti già freddi provenienti dalle pareti interne del cratere le quali, franando all'interno del condotto vulcanico lo ostruiscono temporaneamente e, di conseguenza, sono i primi ad essere espulsi non appena ha avvio l'attività esplosiva.
Sull'Etna sono presenti 2 tipi di lava...
Lava pahoehoe
Termine hawaiano che indica lava basaltica caratterizzata da una superficie liscia, a crosta di pane, o a corda. Un flusso pahoehoe tipicamente avanza come successione di piccoli lobi e dita che continuamente fuoriescono da fratture nella crosta raffreddata del lobo precedente. La tessitura superficiale dei flussi pahoehoe varia moltissimo, come potete notare dalla raccolta qui sotto, mostrando spesso bizzarre forme che vengono per questo motivo denominate sculture di lava.
Termine hawaiano che indica lava basaltica caratterizzata da una superficie liscia, a crosta di pane, o a corda. Un flusso pahoehoe tipicamente avanza come successione di piccoli lobi e dita che continuamente fuoriescono da fratture nella crosta raffreddata del lobo precedente. La tessitura superficiale dei flussi pahoehoe varia moltissimo, come potete notare dalla raccolta qui sotto, mostrando spesso bizzarre forme che vengono per questo motivo denominate sculture di lava.
Lava aa
Termine hawaiano (si pronuncia 'ah-ah') che indica flussi lavici con una superficie spigolosa e frammentata, composti da pezzi di lava fratturata. La superficie incredibilmente acuminata di un flusso aa solidificato rende il suo attraversamento molto lento e difficoltoso, nonché non molto salutare per gli scarponi...
Termine hawaiano (si pronuncia 'ah-ah') che indica flussi lavici con una superficie spigolosa e frammentata, composti da pezzi di lava fratturata. La superficie incredibilmente acuminata di un flusso aa solidificato rende il suo attraversamento molto lento e difficoltoso, nonché non molto salutare per gli scarponi...